Come sono lontani i tempi entusiasmanti delle primarie fra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. Allora le paragonai agli incontri di boxe fra Muhammad Alì e Joe Frazier. Che moscia invece la campagna elettorale dei tre candidati, due apparivano strutturalmente fragili, uno sfinito dagli scioperi della fame (Pannella style), l’altro intristito da quando è passato da numero due a potenziale numero uno.
Così molti di quelli che contano hanno reagito seccati alla limpida vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie del Pd. Il popolo di sinistra (al di là delle chiacchiere colte, è in realtà specularmente simmetrico a quello populista di destra) avrà seppellito, forse per sempre, la parabola politico culturale di Matteo Renzi? Di lui sono rimasti alcuni libri, un paio di locuzioni linguisticamente geniali, il mito del job act, una cena alla Casa Bianca con Barack Obama, un divertente inglese, un set completo in varie grammature di camicie bianche, un bus del cielo sempre a terra perché nessuno ci vuole più salire. Con questa terza sconfitta, dopo quelle della notte fatale del 4 dicembre 2016 e del 4 marzo 2018, è tornato umano, è tornato il ragazzotto sbruffone ma molto tenero con i genitori.
La settimana scorsa scrissi un tweet scanzonato, ma non troppo: “Renzi ha uno stock di voti, i magazzinieri Zingaretti e Sala vogliono rubarglieli”. I suoi voti erano, sono, di prima qualità, sono voti pesanti e pensanti, ad alta fidelizzazione, raccolti uno a uno. Erano pronti per creare quel Partito della Nazione tanto sognato dai “competenti”, ben prima che Emmanuel Macron si inventasse En Marche. I “renziani” si sarebbero accoppiati con i “berluscones” dello zoccolo duro (cravatte Marinella a pois e foulard Hermes con decori, serie cavalli) e a quelli di + Europa, quattro gatti, però i più vicini al Sole.