Il risultato delle elezioni regionali ha decretato un pareggio sostanziale anche se il pallottoliere dei governi territoriali misura una prevalenza indiscutibile in favore del centrodestra, che su 20 regioni ne governa 15.
I risultati
Nicola Zingaretti esulta per aver tenuto la Toscana, la Puglia e la Campania, mentre i Cinque Stelle celebrano il successo del referendum per consolarsi dalla disfatta elettorale che attesta percentuali ad una cifra. Nell’unica regione, la Liguria, in cui l’alleanza di governo si è presentata compatta alle urne si è registrata una sonora bocciatura, replicando l’insuccesso della formula sperimentata in Umbria. Il centrodestra conquista una regione ma risulta perdente, pur avendo vinto, perché ha ceduto all’ingenuità di prefigurare una vittoria tennistica (il 7 a 0) e velleitaria con i risultati che ne hanno ridimensionato le ambizioni. Il centrodestra conferma di essere maggioranza nel Paese, tuttavia, per resistere al logoramento dei prossimi due anni, non deve rinunciare all’autocritica, revisionando linea, riorganizzando i suoi messaggi e investendo sulla qualità della classe dirigente.
Per Zingaretti non è stata una vittoria, semmai possiamo riconoscergli un successo pirrico che lo condurrà a sacrificare la leadership nel Pd insidiata dal fronte dei riconfermati governatori. Difatti, l’affermazione di Vincenzo De Luca in Campania e di Michele Emiliano in Puglia sono successi personali emancipati dai partiti. Anzi, lo “sceriffo” De Luca si è esibito in questi mesi in una plateale ostilità al Pd, al governo Conte e ai grillini, mentre Emiliano a risultato conseguito ha tributato un riconoscimento al corregionale Giuseppe Conte confermando di non essere organico al Nazareno. Sul neopresidente della Toscana Eugenio Giani ha messo il cappello il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che aspira alla segreteria del Pd e tenterà di raccogliere il vento di fronda dei territori per veleggiare nella scalata dei dem.
Zingaretti e i Cinque Stelle
A Zingaretti la base del partito potrà imputargli l’enessima mossa pericolosissima di essersi accodato ai Cinque Stelle sul referendum, uniformandosi all’antiparlamentarismo grillino da cui gli elettori del Pd si sono dissociati. Dalle analisi del voto è emerso che il 55% degli elettori piddini hanno votato No, sconfessando la linea di subalternità politica del segretario verso Di Maio. Dunque, per Zingaretti i risultati elettorali non rafforzano le sue ambizioni, semmai le minacciano con il fronte interno dei governatori ad insidiarne la leadership e con la base pronta a contestare una linea remissiva ai diktat del qualunquismo antipolitico.
Di Maio ha commentato il risultato del referendum riesumando quel lessico epurativo che è la cifra originale del dizionario grillino. Così Giggino da Pomigliano d’Arco: “Quello raggiunto oggi è un risultato storico. Torniamo ad avere un Parlamento normale, con 345 poltrone e privilegi in meno”.
I partiti aderendo acriticamente alla narrazione grillina ne hanno accettato i capi di imputazione, autoaccusandosi di detenere privilegi e certificando una sorta di sindrome di Stoccolma con le vittime della demonizzazione pentastellata sottomesse ai loro aggressori.
Incognita candidature a Roma
Zingaretti dovrà risolvere la partita delle candidature a Roma, con il tema del sostegno o non sostegno a Virginia Raggi, e dovrà far valere i nuovi rapporti di forza interni alla maggioranza con l’accesso al Mes, lo smantellamento dei decreti Sicurezza e lo ius culturae. La vittoria (di Pirro) che si accredita a Zingaretti, considerando il muro grillino e l’ostilità interna, rischia di essere il preludio del tracollo per il segretario dem.
Andrea Amata, 22 settembre 2020